Bo e Luke al Guggenheim poi a mangiare ostriche
Al “Gug” ci aspettano per una visita guidata por dos. L’edificio è bello fuori, è bello dentro, è bello tutto. Gehry qui ha dato mostra della sua sinuosa genialità e per un’ora o forse più dimentichiamo che per due punti qualsiasi passa una linea retta: qui è un continuo di linee curve, forme concave e convesse.
Quanto al discorso della collezione all’interno, dell’assenza di una sezione permanente e del concetto di mostrare solo poco per volta – concetto che si estende a tutta la fondazione, non solo alla sede di Bilbao – beh, trovo difficile apprezzarlo. Una scusa per aumentare la frequenza delle visite, un esempio ben riuscito (ma non ottimamente visto che sono in tanti quelli che escono delusi per questa ragione) di marketing delle arti. Per il resto è un altare dedicato all’ideologia del “più grande è, più bello è” con sculture che impressionano perchè gigantesche ma rese in miniature da tavolo sembrerebbero nient’altro che ricettacoli di polvere fatti di lastre di acciaio in torsione.
Piuttosto, le opere da togliere il fiato le troviamo al Museo delle Belle Arti, con sculture del locale Eduardo Chillida ma anche di Jacques Lipchitz, e quadri di Aurelio Arteta che subito attirano l’occhio da lontano e continuano ad appagarlo da vicino con i loro particolari, mentre commuove la visione post bellica di Ricardo Baroja in Vuelven al pueblo.
La sera in un borgo sperduto intravediamo gente giocare alla pelota basca e mangiamo (tra l’altro) ostriche alla brace che lasciano senza parole, nella disperata ricerca di memorizzare una sensazione così piacevolmente inusuale.
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